"Abu Dhabi: quando lo udii, mi parve un nome magico. Vedevo gia sabbie fosforescenti e pugnali d'argento sbalzato, le acque immobili del Golfo, i pescatori di perle, e le carovane cariche di datteri. Udivo il suono del liuto in una tenda nera, il nitrito dei purosangue tra le dune, e il pestello d'ottone che batte, ritmico, nel mortaio. Sentii la fragranza dell'aloe, e sulla pelle provai l'arsura di un'estate perenne, dove "l'ombra non ha ombre" e il sole non dà mai tregua. Non sapevo che proprio in quella dimessa villetta sulle pendici di Beirut, dove ero capitata quasi per caso, avrei trovato l'Arabia.
Abu Dhabi vuol dire "Padre di gazzella". E' il nome di un reame lontano mille miglia e grande metà della Sicilia. In Occidente, i pochi che ne conoscevano l'esistenza la chiamavano Costa dei Pirati: lì, all'estrema punta dell'Arabia, vive la più fiera tribù del deserto. Su di essa regnava un tempo un emiro saggio e accorto, rispettato dai nemici per la sua durezza e dai sudditi per la sua equanimità. Aveva saputo, in quasi quarant'anni di regno, pacificare le faide tribali, difendere il territorio dalle mire di vicini assai potenti, e tenere a bada persino gli inglesi, di cui Abu Dhabi era un protettorato.
Poi, un giorno, si trovò il petrolio. Ma Sheikh Shakhbut, poichè tale era il nome dell'emiro, non si lasciò impressionare. Petrolio, disse, non significava altro che denaro; denaro nè guadagnato con fatica nè conquistato con coraggio; denaro trovato così, per caso, sottoterra, come un tesoro nascosto - o come un premio di lotteria.
Shakhbut non amava il denaro. Le poche Marie-Theresie d'argento che gli versavano le tribù di Bani Yas, degli Awamir, dei Manasir e dei Dhawahir, secondo un'antica usanza beduina che confermava così la sovranità del capo, gli erano più che sufficienti per finire i suoi giorni in pace, nel forte d'arena pressata, tra le sue letture di Corano. E poi, in tanti anni di regno, Sheikh Shakhbut aveva constatato l'effetto deleterio del denaro sui beduini. Ora, dopo tanta povertà, una sì enorme ricchezza! Per il suo popolo sarebbe stata la fine.
"No" disse Shakhbut, "la mia gente non verrà corrotta", e chiuse i lingotti in dispensa. Invano imploravano le compagnie petrolifere, invano uomini politici e imprenditori bussavano alla sua porta,. Shakhbut li fissava con i suoi occhi ombreggiati d'antracite e ripeteva, inesorabilmente, "no". Finchè un giorno gli inglesi, stanchi di pregarlo e smaniosi di smerciare la loro tecnologia, decisero di togliere di mezzo quel suddito indisciplinato. Senza spargimenti di sangue, s'intende, senza neanche infrangere le leggi beduine: bastò un consiglio di famiglia, qualche malcontento opportunamente fomentato e Shakhbut si trovò sulla via dell'esilio. Al suo posto Sheikh Zayed, il fratello prediletto, l'uomo più generoso del reame, non avrebbe esitato a distribuire Rolls Royce e surgelati. Così pensavano gli inglesi mentre Shakhbut atterrava a Beirut.
Risero gli evoluti libanesi dello sceicco avaro che vietava i condizionatori d'aria come peccato. Schernirono il suo nome, che significa Scarabocchio, e raccontavano che non fidandosi dei conti correnti, chiedeva di controllare quotidianamente la presenza fisica delle sue banconote
Io quel giorno conobbi Shakhbut. "Quanto dista il cratere dell'Etna da quello del Vesuvio?" mi chiese per prima cosa, sapendomi siciliana. E quando gli risposi "non so", mi scandì l'esatto chilometraggio. Domandò perchè volessi scrivere sull'Arabia. "Lo hanno gia fatto Lawrence e Doughty, Philby e Palgrave: cosa sei in grado tu di scoprire, che loro non conobbero?" "Le donne," gli risposi, "voglio conoscere le vostre donne , che da noi dicono schiave". Shakhbut scoppiò a ridere. "Se ci riuscirai, solo tu avrai capito l'Arabia," disse presentandomi Gut, sua figlia, la prima automobilista d'Arabia. E Seeba, la nuora, vedova del figlio morto alcolizzato. E Miriam, la sua unica moglie, che mi regalò una collana di diamanti.
Il mio arabo, che studiavo, con esclusivo privilegio, nel Convento dei Padri Bianchi in sant'Apollinare, era troppo carente, e il mio impaccio davanti alle loro maschere di tela mordoré così evidente che dovettero, loro, farmi coraggio. Osservavo con raccapriccio il bastoncino che, dalla fronte al naso, tiene tesa la tela; i buchi per gli occhi, sagomati ad ali di gabbiano; i cordoncini dorati che fissano la maschera sul capo; e udivo, da là sotto, lo strano rimbombo delle loro voci senza labbra. Ero così stupita, esterrefatta,che non notai subito la cosa piu straordinaria: i loro occhi, immensi, orlati di nero, cupi e luminosi al tempo stesso, sognanti, appassionati.
"Ti porteremo noi ad Abu Dhabi, Ishaallah!" mi disse Sebha. E mentre le altre voci, morbidee remissive, ripetevano "Se Dio vorrà", gli occhi lampeggiavano con tanta caparbia risolutezza che non ebbi dubbi. Sarei andata ad Abu Dhabi.
Harem, Vittoria Alliata
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